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SoapOpera Fanzine

Collaborazione attiva dal 2016

#WEEKLY

// Everything has been said about this quarantine

We moved from do not stop to lockdown, from talking to silent, from fear, to patriotism and again, talking and talking. There was talk of fake news, conspiracies, hand sanitizers and toilet paper. In short, we have spoken. A lot. Has days goes by I realized I talk a lot as well. I speak to myself, I analyze what is going on, what happened and I think about what’s next. Honestly, the next step doesn’t get me anxious that much. I guess because I have learnt to do not blame a weird star for what is or isn’t going on in life. The thing I am wondering about the most, is why we dream so much in this odd moment. Cynical would say it’s because of all the pizzas and cakes we are baking; naysayers would say it’s because of our body fighting against stillness throughout our unconscious; dulls would say that we always dream, but most of the times, we don’t remember doing so.

I don’t know why I am dreaming so much, but I am thinking about it quite a lot.

Unconsciously, I am analyzing every chapter of my whole life so far. It’s not a lawsuit, I am not looking for guilts and victims, I am just watching a movie. Maybe, more than a movie is a series. One of those series, so good that authors are always looking for new tips to put together the next season. Whatever it is, I am watching it.

In my everyday life I would have never did it in this way. I would have fit that memory or flashback in between an e-mail and a phone call, a meeting and the gym, a drink and a interview. Maybe it’s boredom, maybe it’s because we all have space right now, however I am devoting time to this movie.

I am not planning when I’ll press play or pause. It runs itself at its leisure.

I look back to that time when I took the right decision, but also when I selected the complicated option. What a fool stubborn I have been. I replay the head-on crashes when I pushed too much on the throttle, as well as that time we were bowled over by events, but we rolled into that avalanche so well. Everyone has his own cut, mine is packed and made by people and feelings. I believe that they keep the story on in my plot, in a tangled dialogue with consequences and reactions. It’s weird that in such a moment where people are distancing each other, we realize how much they handle the reins of the game. Automatically, there are those introspective frames, where the director is engaging the camera closer and closer towards the subject on the scene, gently pushing the viewer to look inside him. In those moments of the footage, I ponder my temper. Everyone has it’s own, there is little to do about it. It sound so banal to say, but it is one of this easy thing that turned out so complex to be accepted in reality. What you are, what you became, everything leads the narrative pace to pursue or flatten the plot. Without judging, I am noticing how much my attitude has always been such a part of mine. It’s sarcastically ironic. When the camera close up on the eyes, I try to look inside to understand if I was able to see what I am noticing right now. In that moment I remember I have to buy my contacts, but my optician is closed and my glasses give me headache after a while.

Ok then, back to reality.

Let’s find a drawer to set up, a book to read or a face mask to try while I am selecting today’s online yoga session. I indulge over my space and I realize how lucky I am to live in a flat with so many big windows. For the record, they are a nightmare to clean, but at least I can see meters of sky from my sofa. Such a luck, especially during this quarantine. When I darken them at night, the next day I realize that the retrospective movie - series of my life went ahead, enriched by dreamy and surreal details, such as unexpected people that shown up in dream. I don’t know exactly for whichever reason, but I try to keep them in my mind while I am drinking my coffee.

Life wise, the promise I make to myself is to keep this attitude and bring it outside with me when the lockdown will be over. It’s seems to be like a good series you can’t detach from, but it’s a dream, yet to be recalled the day after indeed.

They say the world will be better after this. They say that nature is taking back its own space. They say that we will hug each other again and that everything is gonna be alright.
I want to believe, as well as I want to keep on dreaming now and, even more, when we’ll be back together in this crazy world.




#THEBOTANICALISSUE

MARIANA MARTINI // EVERY HOUSE HAS ITS TROPICAL SIDE

Mariana Martini, architetta Brasiliana di nascita e Milanese di adozione, ci ha raccontato la nascita della sua passione per l’interior design e il suo strettissimo rapporto con il tropicale. A Milano, il suo omonimo studio è uno scrigno dove il suo sogno di portare un po’ di Brasile in Italia è diventato realtà. Un sogno partito da lontano, in realtà sempre stato dentro di lei, fin da piccolissima.

Simona. Com’eri da bambina e cosa sognavi di diventare da grande?
Mariana. Ho sempre voluto avere un ufficio. Mi piaceva l’idea di avere una scrivania e di convivere con la cancelleria. Sono cresciuta con l’esempio di mio padre ingegnere e mia zia architetta, così come mia madre, impiegata in banca con la sua postazione. Immaginavo che da grande anche io avrei avuto un posticino tutto mio, con un tavolo e tutto il materiale necessario. In più, ero praticamente ossessionata dai cambiamenti degli spazi. Da bambina, almeno tre volte l’anno, modificavo la disposizione dei mobili della mia cameretta. Mi piaceva l’idea di andare a dormire e svegliarmi poi la mattina seguente, in una stanza diversa. A dieci anni, andavo a casa delle mie amiche e facevo lo stesso. E’ proprio vero quando diciamo che si nasce con una vocazione.

Simona. Perché hai deciso di studiare Architettura in Brasile?
Mariana. Non ho mai voluto fare altro. Nei miei cinque anni di architettura si è consolidata ancora di più questa mia convinzione e proprio lì, è iniziata la mia strettissima relazione con gli elementi botanici. La mia università era totalmente immersa nel verde tropicale: la struttura dell’edificio era accostata a pietre, montagne e piante che ti davano l’illusione di essere in una giungla. Tra un edificio e l’altro, passavo in mezzo al verde ed ero totalmente immersa nella natura. E’ la parte più selvaggia di Rio de Janeiro e mi ha sempre affascinata tantissimo.

Simona. Poi sei arrivata a Milano, hai frequentato un master all’Istituto Marangoni, fatto esperienza presso Matteo Thun & Partners e infine aperto il tuo studio. Milano ti ha dato tanto insomma. Che rapporto hai con la città?
Mariana. Il primo momento che sono arrivata qui, la città, mi era sembrata strana. Andavo a vivere da sola per la prima volta ed era un momento di enorme cambiamento per me. All’inizio il mio problema credo sia stato il clima, faceva così freddo per me. Avevo vissuto per qualche mese a New York, ma è diverso quando sai che non sarai di passaggio, ma che ti dovrai abituare a quel clima, totalmente nuovo per te. Sono arrivata a Milano in autunno e mi era sembrata una città fredda, in tutti i sensi. Poi è arrivata la primavera, gli alberi sono fioriti e mi sono accorta che non era poi così tanto ghiacciata come credevo. E’ pieno di corridoi verdi qui e ho cominciato a guardarla sotto un altro punto di vista. Ero abituata a vedere spiagge su spiagge, invece a Milano ho conosciuto la vita nei parchi e ho capito che ci sono altri modi per vivere una città e godersi la sua natura. In qualche modo mi ha fatta rinascere, ho dovuto ricominciare tutto da capo, anche i rapporti umani. A me piace Milano, è una città viva e raccolta. Venendo da una città enorme come Rio, apprezzo molto la dimensione umana di questo posto.

Simona. Sul tuo profilo Instagram si legge “Portiamo il Tropicale in città”. Come ci sei riuscita?
Mariana. Per me il tropicale in città è immaginare, ad esempio, un milanese a Rio. Immagino questa persona in vacanza, in una casa inserita in una città di mare. In una situazione del genere, mi piace pensare che ci si possa rendere conto della possibilità di poter lavorare, ma al tempo stesso godere della natura e della bellissima sensazione dell’essere in vacanza. La mia idea è quella di portare questa atmosfera qui a Milano: l’illusione di essere, ogni giorno, in un bellissimo albergo di Rio, rimanendo a casa tua.

Simona. Non riesco a immaginare una casa senza elementi naturali. Che siano piante, elementi decorativi o colori, per me è automatico. Ricordi nei tuo progetti, un lavoro in cui hai dovuto inserire il tuo Tropicale in maniera per te insolita e inaspettata?Mariana. Sì, la prima volta che ho lavorato sul progetto di un Airbnb. In una situazione del genere, non sempre si possono avere le piante, perchè magari non c’è qualcuno che se ne possa prendere cura come si dovrebbe. Dato che non amo particolarmente le piante finte, mi sono dovuta ingegnare. Ho cominciato quindi ad inserire la carta da parati botanica o a stampa animali, applique in rattan e materiali che, al tocco e alla vista, ci avvicinano alla natura. Sembrava un po’ come essere in un chiringuito. Da quel momento, ho cominciato a giocare: carte, rivestimenti dai colori naturali, elementi d’arredo, tutto può essere funzionale e reinventato per costruire un’atmosfera tropicale in città.

Simona. Fare l’interior designer ti permettere di entrare nella vita delle persone. In qualche modo bisogna conoscersi un po’, capire le esigenze e reinterpretare lo spazio a disposizione. Ti è sempre venuto naturale questo dialogo con il cliente o hai dovuto imparare a gestirlo?Mariana. Entrambe le cose. Per quanto mi riguarda il 90% del mio lavoro è residenziale, quindi sono molto a contatto con la vita privata delle persone. Quando lavoro sugli alberghi o attività commerciali, l’approccio è completamente diverso. Nel residenziale, lavori con i sogni delle persone, specialmente quando è la loro prima casa. I progetti e i desideri sono tanti e importanti. E’ un rapporto molto intimo e serve tanta delicatezza. La maggior parte delle volte ho a che fare con delle coppie e l’ultima cosa che vorrei è farli discutere tra loro, quindi bisogna trovare il modo giusto. Mi reputo fortunata, perchè da sempre ho avuto un’estrema facilità nel comunicare e nell’instaurare un rapporto umano con il prossimo. Ci sono nata. Quando si tratta di un progetto, però non basta solo questo. Tante volte, capita di dover riuscire a far capire ai clienti che certe richieste non sono applicabili al loro spazio. Lì bisogna trovare un modo per far cambiare idea alle persone, senza entrare in discussioni o generare asti. Questo si impara a gestire grazie all’esperienza e alle situazioni che ci si trova ad affrontare.

Simona. A proposito di dialogo, sui tuoi canali social ci sono diversi video in cui ti racconti. Oltre ad essere qualcosa di estremamente utile, penso che crei anche un filo diretto con le persone che ti seguono. Come è nata queste idea di raccontarsi?Mariana. Come dicevo, ho un’estrema facilità nel comunicare. Quando ho iniziato non avevo particolari piani, condividevo semplicemente dei miei pensieri o argomenti. Questi video poi si sono accumulati, li ho messi insieme e ho cominciato anche ad utilizzare IGtv. Insomma, sperimentavo. Le visualizzazioni aumentavano, le persone apprezzavano e interagivano con me; di conseguenza, io continuavo a condividere con loro i miei pensieri. Poi ho conosciuto un video maker che mi ha proposto di lavorare insieme e abbiamo cominciato a girare qualche video nel mio studio. Mi lascio ispirare dalle domande che mi arrivano e insieme abbiamo trovato un format. La sperimentazione e il provare non mi ha mai spaventata, anzi.

Simona. Facciamo finta di essere ad un colloquio in cui stai cercando un nuovo collaboratore giovane da inserire nel tuo team. Cosa cerchi in questa persona?Mariana. Sicuramente la prima cosa che guardo non è l’esperienza. Mi interessa lavorare con delle persone comunicative e ironiche, è il mio carattere, ma in realtà la cosa più importante è la voglia di fare e di imparare. L’interesse è poi la carta vincente e si capisce subito se è vivo o meno, direi già dal primo contatto via e-mail. Una persona per collaborare con me deve essersi documentato sullo studio e aver già capito il suo target. Credo che questa sia la cosa fondamentale.
Sapere cosa si vuole rende le persone uniche.



#theMENUissue

ROSALBA PICCINNI // MUSIC, FLOWERs, food and RESILENCE

La mente e proprietaria del noto Potafiori di Milano è una donna forte, sorridente e piena di parole.
La sua passione per i fiori, il cibo e il mondo si incontrano in unico luogo, dove il tempo sembra rimbalzi sospeso su mille cambi di luce. Il filo conduttore era e rimane la musica. Un amore che Rosalba, la Cantafiorista, continua a inseguire attraverso tutte le imprevedibili e possibili strade della vita.

Hai presente quando ti complichi la vita perchè non ti basta mai niente? Ecco, sei nel posto giusto!

 

Simona. Guardandoti indietro, da dove pensi venga tutto questo?
Rosalba. Dalla mia famiglia. Una bella famiglia numerosa, eravamo in dieci. Il cibo abbondava e per me ha sempre significato famiglia, unione, condivisione di idee, progetti discussioni, perchè ci si siede a tavola, si mangia e si parla.
Ho aperto un ristorante, perchè infondo era il collante di ciò che sono, il ponte che collega le mie passioni.
Tutto è iniziato facendo dei concerti nei miei negozi di fiori, offrendo un aperitivo fatto da me. L’idea era offrire poche cose, studiate, con una coerenza: ricordo di birra, pane e porchetta, oppure pane, salame e vino rosso. Tutto era sempre servito in una certa maniera, con profondo amore e rispetto.

Simona. La tua musica quindi ha sempre fatto da colonna sonora?
Rosalba. Certo. Io canto musica cantautorale in chiave jazz.
Facevo della jam nei miei negozi di fiori, uno a Bergamo, uno a Milano e arrivavano anche 500 persone. Dato il grande successo e la continua richiesta, ho deciso di aprire Potafiori. Non potevo permettermi di continuare senza una certa organizzazione alle spalle, questo è il motivo per cui ho aperto un ristorante.

Simona. È stata quindi una necessità?
Rosalba. Sì! A volte mi dico “chi me l’ha fatto fare!” altre “meno male!”. Sono successe tantissime cose qui, grazie a Potafiori. È proprio vero che con il sacrificio ti elevi e vai lontano.
Nel mio piccolo, sto facendo delle cose che mai avrei pensato.

Simona. Quindi avere un ristorante non era il tuo sogno originale?
Rosalba. Assolutamente no, io volevo fare la cantante. Ho fatto di tutto nella mia vita: ho cucito a macchina, ho fatto la domestica e la barista. Attraverso tutto questo sono qui oggi, ma ancora per tornare a cantare. Cerco di raccontare la mia storia in una maniera inusuale, ad esempio ora sto scrivendo un libro che uscirà con Vallardi Editore.
È ironico, ho un editore e non ho un discografico. Canto da quando ero una bambina, ho fatto di tutto: matrimoni importanti, 12 date sold out al Blue Note. Uno potrebbe pensare che il mondo vada proprio al contrario, ma credo che tutta la mia semina, accompagnata da un pizzico di fortuna, piano piano mi stia ripagando. Anche essendo a metà su tante cose, quando credi fermamente in un progetto e ti impegni, alla fine ce la fai. Io ho 48 anni, sono al terzo disco, sono prossima all’uscita del mio libro, ho i miei fiori, il ristorante, disegno bare… Sì, casse da morto!
Si può far tutto se lo vuoi, ovviamente con i tempi giusti e profondo amore, perchè non bisogna avere fretta.
Le cose arrivano.

Simona. C’è quindi anche tanto istinto?
Rosalba. Ho imparato a sentire il mio istinto, quella spinta interiore che mi dice : “vai in quella direzione!”. Poi magari ci impiego 20 anni, ma comunque ci metto tutta me stessa. Puoi diventare subito ricco se vuoi, magari facendo del male agli altri, io non voglio. Voglio arrivare con la resilienza, con il tempo, la pazienza e il giusto riguardo nei confronti del prossimo. Ad esempio quando ho presentato la linea di bare, la gente mi guardava incredula e titubante. Io ero e sono felicissima di questo progetto che ho deciso di chiamare Potalove. Per chi lo capisce ha un senso molto logico, è pieno di amore e di rispetto per la morte e le persone che ci lasciano.
Non è presunzione la mia, ma una volta che sono contenta e ho capito che qualcosa ha motivo di esistere, il grosso del lavoro è fatto.

Simona. Questo è sinonimo di enorme serenità e pace con se stessi.
Rosalba. Sicuramente! Quando facevo la domestica ad esempio, ero contenta. Così come quando cucivo a macchina le tute e le felpe o facevo la barista. Per me era tutto sinonimo di bellezza, perchè ero comunque a contatto con il mondo, la gente e realtà diverse che mi sono tornate utili. Adesso so fare un buonissimo cappuccino! Ogni passaggio della vita, ogni amore, ogni apparente delusione, ti serve per andare lontano. Ovviamente, per chi lo vuol capire.

Simona. Renzo Arbore dice: “L’improvvisazione ha scandito una vita intera. La mia”.
Qual’è la tua arte dell’improvvisazione?
Rosalba. Ascoltarmi. Capire quando dentro di te sai che vuoi arrivare “li?”, ma non sai ancora cosa sia esattamente quella meta. Allora improvvisi, perchè vuol dire vivere la vita. Per me l’improvvisazione è vivere e cogliere ogni significato.

Simona. Cosa faresti meglio avendo una seconda possibilità?
Rosalba. Credo di dare troppa fiducia alle persone, ma io sono fatta così. La mia mamma mi diceva sempre “Rosalba, sei troppo genuina, troppo disponibile”. Ogni tanto bisogna proteggersi, ma non riesco mai a capire quale sia il momento giusto in cui farlo. Magari oggi sono un po’ più attenta a non parlare troppo. È proprio vero, con l’età si diventa un po’ più saggi, ma per il resto sono innamorata del mondo, della gente e penso che alla fine ognuno debba fare le proprie esperienze.
Bisogna dare amore, anche perchè ognuno è artefice del proprio destino, del proprio successo e della propria coscienza.

Simona. Se dovessi comporre un bouquet della tua vita, che fiori inseriresti?
Rosalba. Fiori di campo. Ogni fiore, ogni erbetta, dai carciofi, ai cardi, dalla ferula, a tutte le piante grasse che crescono sulle rocce, nascondono qualcosa di incredibile. È la bellezza della spontaneità della natura. Dovessi mai sposarmi una seconda volta, raccoglierei dei fiori in un campo, anche le erbacce. Prenderei quello che c’è in quel momento e farei la mia composizione. Sarebbe bellissimo.

Simona. Che tipo di persone ammiri?
Rosalba. Tutte le persone che hanno fatto la differenza rimanendo fedeli a se stessi. Donne fuori dai canoni, forti, magnetiche come Maryl Streep, o Mina ad esempio. Oppure maestri come Gillo Dorfles. Quando entrava nel mio negozio in Via Broggi rimanevo estasiata: un uomo elegante, coraggioso, all’avanguardia. Nominerei anche Miuccia Prada per il suo estro e coraggio. Belli e veri direi! Concreti e coraggiosi.

Simona. Parlando di coraggio, quando credi di aver messo alla prova la tua resilienza?
Rosalba. Sempre. Quando parlo di resilienza, lo faccio perchè nel momento di disperazione, di sofferenza, mi dico che è la vita e che è da vivere con tutte le sue difficoltà. Quando ho aperto Potafiori è stato così: il primo anno è stato un delirio, però tutto questo mi ha dato la spinta per mettermi in discussione. Sembrerà banale, ma è proprio nel momento della disperazione, del disagio, che tiriamo fuori il coraggio.
In fin dei conti, qualsiasi cosa faccia, ho capito che l’importante è rischiare e raccontare sempre la tua passione, nel bene e nel male.



#theworkissue

GRETA MENARDO // FREESTYLER BABY LADY

Greta Menardo a soli 19 anni è una delle kitesurfer freestyle più conosciute. Una vita piena
e senza sosta, raccontata davanti a un caffè e una copia de “Il Conte di Montecristo”.

Simona. Come ti trovi a Milano?
Greta. Sono nata a Lodi e sono sempre stata affascinata dall’ambiente della grande città. Confesso che Lodi mi è stretta per il suo ambiente di provincia, ma ho avuto la fortuna di crescere vicino ad Milano. La prima cosa che ho fatto appena finito il liceo è stato venire a studiare qui, iscrivendomi a Giurisprudenza. Mi piace Milano, ma non lo sento ancora come
il mio posto. Sono ancora alla ricerca di un luogo e di cosa voglio fare realmente nel mio futuro.

Simona. Pensi che Milano ti stia stretta in quanto città italiana o i motivi sono altri?
Greta. Io amo l’Italia, secondo me è uno dei paesi più belli al mondo e anche gli italiani in sè. L’Italia è un paese molto caloroso e ospitale, però allo stesso tempo mi sembra una realtà un po’ chiusa in se stessa. Personalmente il mio futuro lo vedo in una grande metropoli, dove ogni giorno vedo gente nuova, magari proveniente da tutto il mondo. Ho bisogno di avere sempre nuovi stimoli. A Milano ovviamente ho trovato tanto, però il mio futuro lo vedo altrove.
Mi piacerebbero posti come Londra o New York.

Simona. Viaggiando tanto, hai mai avuto un momento in cui ti sei detta “rimango qui”?
Greta. Se avessi fatto tutti i viaggi che ho fatto in età più adulta probabilmente sarebbe successo, ma dato che ho viaggiato tantissimo tra i miei 16 e 17 anni, non ho avuto questa possibilità. Sognando, direi sicuramente Barcellona o forse le Hawaii da cui realmente non volevo più andare via. C’era un uragano quando ero lì e io pregavo che chiudessero l’aeroporto per sempre. E poi la Thailandia, in particolare Bangkok, città dove non credo potrei mai vivere, ma che mi ha colpito tantissimo per la sua cultura.

Simona. Tutti questi posti hanno in comune il mare. Che sensazioni hai quando sei a contatto con il mare?
Greta. Pace e simbiosi. Sono scoordinata in ogni ambito della mia vita, ma dentro l’acqua è l’unico habitat in cui mi sento totalmente a mio agio. Vorrei cercare un posto che combini la mia passione per il mare e la metropoli. Per le mie origini ho sicuramente un’indole cittadina, ma devo dire che poi quando vedo l’acqua del mare e la sabbia, mi trasformo completamente: non mi trucco, lascio i capelli come sono, vivo con gli occhiali da sole, le infradito e non ho bisogno di altro. Ho sicuramente una personalità ambivalente.

Simona. Ti ha mai fatto paura il mare?
Greta. Su due piedi ti direi che non è mai successo. In realtà quando ero piccola ho avuto un paio di esperienze con il kite che mi hanno fatto paura; parlo di cadute importanti tra le onde e si, mi sono spaventata, però devo dire che nel mare mi sento sempre a mio agio. Mi sento libera.

Simona. In questi anni avrai avuto sicuramente una vita piena di impegni e ricchissima di esperienze. Pensi che alla Greta adolescente sia mancato qualcosa?
Greta. Ho sentito molto la mancanza delle mie amiche storiche che per me sono delle sorelle. L’estate ad esempio io ero via tre mesi e loro andavano a fare le vacanze insieme, ogni sera andavano a ballare io invece ero tutto il giorno in acqua ad allenarmi e la sera non avevo alcuna forza. Mi è mancata tanto anche la mia famiglia, perchè stare tanto lontana da casa alle volte non è semplice. Credo che questa sia l’unica cosa che ho sofferto, ma penso anche che sia un prezzo equo da pagare per tutto quello che ho avuto in cambio. Devo dire che aver viaggiato tanto da sola mi ha fatto crescere enormemente, perchè me la dovevo sbrigare da sola. Ho dovuto imparare a confrontarmi con le persone, ho dovuto imparare l’inglese a furia di sbagliare e essere corretta, quindi si mi rendo conto di essere cresciuta velocemente. Se dovessi mettere a paragone tutte le cose che ho fatto e visto rispetto a quelle che ho perso, non c’è gara.

Simona. Specialmente da più piccola, pensi di essere riuscita a tenere in piedi lo sport a un livello così alto, il frequentare un liceo classico e tutto il resto per incoscienza o per volontà?
Greta. Io ho sempre pensato che se c’eè organizzazione e un minimo di rigore, puoi fare ciò che vuoi. Non ho mai pensato che il kite potesse diventare tutta la mia vita, anche perchè so che non mi sarebbe bastato. Mi piace leggere, mi piace studiare, mi piace vivere in città e ho sempre cercato di dare spazio a tutto, perchè sapevo che non avrei mai potuto pensare di passare tutta la mia vita su una spiaggia. Non sono mai stata una studentessa da nove, ma me la sono sempre cavata dignitosamente per essere in una scuola del genere. Devo dire che guardandomi indietro, viaggiare tanto e studiare un qualcosa di così quadrato, mi ha dato tantissimo. I miei genitori sono stati giustamente molto rigorosi: se volevo fare kite, la scuola doveva andare di pari passo. Posso dire di essere soddisfatta della mia persona e per gran parte è merito loro.

Simona. I tuoi genitori sono degli sportivi? 
Greta. Assolutamente! Io faccio sport da quando cammino. Mi hanno fatto sciare, fare snowboard, hockey, scherma, di tutto. Infatti il kite è nato da un’esigenza più dei miei genitori
che mia: ero una bambina abbastanza esuberante, per cui se non mi sfogavo diventavo ingestibile. Il problema si faceva più pressante d’estate, quando tutte le attività si interrompevano e noi andavamo in vacanza. Cercando uno sport che mi potesse coinvolgere
e stancare, ho visto fare kite, mi sono impuntata nel voler provare e da lì è nato tutto.

Simona. Quanto conta aver iniziato da piccola a fare uno sport del genere?
Greta. Tantissimo. Già se fai kite free style, quindi salti e evoluzioni, devi avere dentro di te un po’ di incoscienza. Il fatto di avere iniziato da piccola mi ha aiutato tanto, perchè non mi ponevo mai domande e fondamentalmente non avevo paura. Mi buttavo e basta. E’ un po’ quello che faccio anche adesso, però dopo essermi rotta il ginocchio, lussata la spalla e così via, ho qualche pensierino in più o forse coscienza maggiore. La paura non c’è mai, non potrebbe esserci, anche perchè si impara a gestirla. Nell’agonismo, ci sono una serie di evoluzioni che procedono per step incrementando la difficoltà. I miei allenamenti consistono quindi in una ripetizione meccanica degli stessi movimenti finchè non riescono, quindi sono abituata a cadere cento volte al giorno e a furia di cadere impari anche a controllare le cadute.

Simona. C’è mai stato un momento in cui hai pensato di mollare?
Greta. Si, quando mi sembrava di ricevere troppe pressioni per il kite, ho sentito che la passione stava venendo meno e mi sono spaventata. Mi ero resa conto che intorno a me diverse persone avevano molte aspettative e l’atmosfera mi stava agitando, in più sono una persona che di fronte alle imposizioni, fa un passo indietro. Devo ammettere di aver messo in dubbio le certezze che avevo, ma tempo un mese o poco più, ho ritrovato la forza, grazie alla mia necessità di dover fare kite.

Greta. Il kite è uno sport in solitaria, come ti trovi in questa dimensione?
Simona. Il kite per me è una valvola di sfogo, è catartico e liberatorio. Posso fare quello che voglio, ammetto di cantare, urlare e mi piace moltissimo. Mi aiuta molto. Il kite è l’unico momento della mia vita in cui non penso a niente, se non a quello che devo fare in quel momento e a godermi il fatto di essere in mare sola con il vento e il sole. Non mi da preoccupazioni.

Greta. Hai riti scaramantici?
Simona. Da piccola mi ero fatta fare il ciondolo con i cerchi olimpici, perchè il mio sogno
era arrivare alle olimpiadi. Prima di entrare in acqua lo stringevo sempre, quasi in maniera istintiva. Adesso devo dire che non ho più riti scaramantici, ma sono molto superstiziosa.

Greta. Tra pochissimo compirai vent’anni, che cosa ti aspetti da questa decade?
Simona. Mi fa paura crescere, se dipendesse da me vorrei avere questa età per tutta la vita.
Mi rendo conto che il tempo vola e vorrei che rallentasse un minimo. Mi piace però l’idea dei vent’anni, forse è l’età più intensa della vita. Mi eccita e spaventa allo stesso tempo, ma sono felice. Probabilmente il fatto di avere una vita così piena influisce su questa visione, forse se facessi meno avrei una percezione più dilatata del tempo. Certo è che se dovessi scegliere tra una vita lunga e noiosa e una vita percepita come breve, ma intensa, sceglierei sicuramente la seconda. Quando ci si annoia, non si gode del tempo che si vive, quindi non ha nemmeno senso che passi più lentamente.


#THEITALIAISSUE

Pija 'A Moda // Carlo verdone influencer since 1981

Il caso di un momento che comincia nel gennaio 2015 e non si arresta. Arriva Alessandro Michele alla direzione creativa di Gucci e dopo quasi 3 anni fa ancora parlare forte di sé.

Osannato dalla stampa per la rivoluzione portata, sale alla ribalta in pochissimo, imponendosi come una delle figure di riferimento mondiale del panorama della moda. Molti i fatti che entrano di diritto nella definizione di “pietre miliari”: campagne pubblicitarie e video diretti da Glen Luchford che diventano cult, impennata da capogiro nei numeri del gruppo e, come se non bastasse, viene chiamato come curatore del sedicesimo numero di una delle riviste di riferimento per ricerca e immaginario visivo: A Magazine curated by.

Proprio alla ricerca di Michele si deve il fascino e il successo provocato. Un calderone inesauribile di influenze che spaziano da David Bowie, “Le Lacrime amare di Petra Von Kant”, le grafiche degli AC/DC, il Northen Soul, arazzi, dive di altri tempi, regine e alieni. In tanti si sono lanciati nell’analisi e interpretazione del dizionario di Michele, individuando l’ispirazione dietro il più alto numero possibile di elementi svelati in passerella.

Insomma, è stato detto tutto, come osservava Jessica in Viaggi di Nozze (di Carlo Verdone, 1995) che innesca subito uno scambio tra Ivano (Carlo Verdone) e Mirko (Costantino Valente):

Ivano: “Pija ‘a moda, ‘na vorta eravamo noi che s’attaccavano a i stilisti pé avé ‘na dritta, poi so stati i stilisti che se so attaccati a noi….”
Mirko: “E mo s’attaccamo tutti ar c***o s’attaccamo!”
Ivano: “ANFATTI!”

Carlo Verdone e i suoi, teorizzando il più semplice dei teoremi di ispirazione e ricerca dei creativi, si mostravano come pionieri della messa in scena di stereotipi della società.
L’attore e regista romano fa di questo studio una parodia da portare in pellicola: l’amore tragicomico di due giovani romani, Sergio e Nadia (Eleonora Giorgi) in Borotalco del 1982, il coatto, Ivano, accompagnato dalla neo sposa Jessica (Claudia Gerini) in Viaggi di Nozze del 1995 o il volgare Moreno Vecchiarutti in Grande Grosso e Verdone del 2008, marito di Enza (Claudia Gerini). Nella stessa pellicola appare il logorroico professor Callisto Cagnato che riprende lo storico Furio Zòccano del film Bianco, Rosso e Verdone (1981), stereotipo di uomo dalla ossessiva cultura e controllo. Sempre dalla pellicola del 1981 arriva Pasquale Ametrano, uomo emigrato in Germania alle prese con un viaggio verso Matera. Altro esempio Romeo, cantante e musicista in Sono Pazzo di Iris Blond in preda a una crisi creativa e sentimentale che lo porterà ad un complicato rapporto con Iris (Claudia Gerini), voce del duo Iris Blond and the Freezer.

Lo scavare nei luoghi comuni delle figure popolari, porta con sé una messa in scena anche visiva del personaggio, costruito magistralmente attraverso l’utilizzo di un’immagine semplice da decodificare per lo spettatore. Proprio gli abiti diventano velocemente il mezzo con cui riconoscere e incasella Ivano, Jessica, Moreno, Iris e il Professor Cagnato nello stereotipo di riferimento. Scorrendo la memoria delle immagini create da Verdone e essendo bombardati oggi da una continua frenesia nel trovare il nuovo, il diverso, ciò che farà successo e sarà la cosiddetta nuova tendenza, la ricerca ha portato inevitabilmente ad un parallelismo ancora non affrontato nelle miriadi di analisi e interviste rilasciate sul lavoro di Alessandro Michele.

Personalmente, io sto con Ivano.


#themovieissue

Cameo //Mister Fabio Carlini, tells us about his universe built upon images, plots and soundtracks

Fabio Carlini, sceneggiatore e storico del cinema, ci racconta il suo universo legato alle immagini, le storie e le musiche delle pellicole che hanno segnato la sua vita.
Silvana Mangano e Anouk Aime?e, sono i suoi primi amori, “The End” dei The Doors le note piu? evocative, “Scandalo al sole” il suo punto di svolta.

 

Simona Dell’Unto. Il Primo Ricordo collegato al cinema?
Fabio Carlini. Il primo ricordo e? sicuramente un film di Delmer Daves che si chiamava “Scandalo al sole” del 1959. Ho ovviamente degli altri ricordi precedenti, ma “Scandalo al sole” e? il primo film che ho visto che era vietato ai minori di 16 anni e io ho falsificato il documento per andare a vederlo. E’ una storia sentimentale che mi ha avvicinato molto al cinema, la protagonista, Sandra Dee, era cosi? bella. E’ successo qualcosa per cui ho cominciato a frequentare il cineforum di La Spezia, la mia citta?. Li? proiettavano i film di Antonioni, di Fellini, “Otto e mezzo”, “La Dolce Vita”, i film americani, insomma da li? e? cominciato tutto.
C’e? anche un ricordo precedente, piu? infantile, di cui un po’ mi vergogno, perche? collegato a un film del 1955 che denota la mia anima terribilmente romantica. Si chiama “L’amore e? una cosa meravigliosa” diretto da Henry King, che racconta di un incontro tra un giornalista americano e una donna asiatica che si innamorano, ma lui rimane ucciso. Mi piaceva tanto questa storia tragica e ho obbligato mia madre a portarmi al cinema, addirittura due volte, perche? ero ancora troppo piccolo per andare solo. Ho in testa il ricordo di questa pellicola, non dei cartoni animati come tutti i bambini. Avro? avuto dieci o undici anni, non di piu?.

Simona.  E’ stato catturato dalla storia o dalle immagini usate?
FC. Inizialmente ero colpito in maniera emotiva dalla storia. Un altro ricordo che ho e? collegato al film “Splendore nell’erba” un film di Elia Kazan del 1961 che e? sempre una storia assolutamente romantica. Era il mio tarlo probabilmente. Quindi direi che inizialmente venivo preso dalla storia come primo impatto, pero? contemporaneamente, grazie ad una visione piu? ampia, un’attenzione piu? intelligente diciamo, mi spostavo sulle immagini.

Simona. La musica e? un elemento fondamentale in questo campo. Qual e? la scena che a suo gusto spiega al meglio il potere del suono collegato alle immagini?
FC. Sicuramente i The Doors in “Apocalipse Now” dove la musica e? tre quarti della potenza di quell’immagine. Poi mi viene in mente Sam che suona “As time goes by” in Casablanca, altro collegamento con la mia anima romantica
“You must remember this, a kiss is just a kiss…..”.
D’obbligo ricordare la colonna sonora de “I guerrieri della notte” di Walter Hill e poi c’e? il musical di cui direi “Un americano a Parigi”, “The Rocky Horror Picture Show”, poi c’e? l’universo di Morricone, pero? personalmente direi che l’abbinamento di “The End” dei The Doors con la giungla iniziale di “Apocalisse Now” e? un qualcosa di straordinario. I suoi colori cupi, questa giungla terribile sulle note di “The End” e? da accapponare la pelle.

Simona. Spesso il cinema racconta momenti storici o meglio riesce a descrivere il cuore di un momento, la sua criticita?. Quale film sceglierebbe per parlare di oggi?
FC. Volendo essere didascalici, c’e? un film del 2015 che racconta la Cina di oggi che si chiama “Al di la? delle montagne” diretto da Jia Zhangke. E’ straordinario nella narrazione dell’evoluzione della Cina dal periodo di Mao ai giorni d’oggi. In questo film c’e? “Go West” dei Pet Shop Boys che e? il sogno dell’utopia.
Volendo trovare dei collegamenti piu? emozionali, un film che parla di oggi in un modo agghiacciante e? “Il capitale umano” di Paolo Virzi?, lo definirei come un pugno, ma e? molto vero. Quello che mi piacerebbe vedere sono i film positivi che raccontano un presente o un futuro di speranza, ma come tutti sanno la sfiga e? molto piu? cinematografica della positivita?. Mi viene da pensare a “La La Land” , un film anacronistico sull’utopia, l’utopia del musical, che ho trovato veramente bello. Tocca poi un tema a me caro, quello del sogno: se tu hai un sogno nella vita devi dedicarti solo a quello, il resto non esiste e non deve esistere. Come dico ai miei studenti che sognano di diventare registi, si deve essere come dei Frati Trappisti, per dieci anni ci si dedica solo al proprio sogno, non ci sono le ragazze, le vacanze, non c’e? niente, c’e? solo il cinema. Se tu hai un sogno, devi lasciar perdere gli altri sogni, ce n’e? uno solo.

Simona. Con il suo lavoro da professore universitario avra? avuto modo di fare diverse riflessioni. Le e? mai capito di vivere una situazione di confronto o di osservazione nei confronti dei suoi studenti che le ha ricordato un personaggio o una trama di un film?
FC. Ho incontrato molti studenti bravi, molti mediocri e pochissimi geniali.
Avevo una studentessa che era assolutamente geniale, ha fatto un cortometraggio che assomigliava ai lavori di Franc?ois Truffaut, lei stessa sembrava uscita da un film francese con i suoi capelli alla Juliette Gre?co. Aveva, pero? un difetto, voleva fare troppe cose, e? troppo appassionata della vita, ha troppi sogni. Era geniale, non c’entrava niente con la realta?, era assolutamente eccentrica rispetto al resto, quello che trovavo geniale era che non sapevi mai cosa aspettarti. Magnifica.

 


#THE90SISSUE

Lara // The One and only

La paura del nuovo millennio, la fine del mondo, l’esplosione della terra, tutto questo terrore poteva essere affrontato solo con lei: Lara Croft, l’eroina di Tomb Raider, eletta una delle donne più sexy degli anni 90, con più di 200 copertine all’attivo.
Un fisico impossibile, gambe chilometriche, treccia perennemente composta nonostante le spericolate avventure in giro per il mondo a recuperare preziosi tesori. E poi il seno, nato dalla moltiplicazione del 150% del volume originale da parte dell’ideatore Toby Gard, accettata con grande convinzione dai programmatori.

Lara, con il suo evocativo body verde in lycra, shorts militari, anfibi, due pistole e zainetto, ha attraversato il globo, sconfitto creature mitologiche, affrontato luoghi impervi e salvato il mondo dal male. La prima protagonista al femminile di una saga digitale, più forte di qualsiasi altro uomo, astuta, colta, archeologa e inarrivabile. Ha fatto sognare proprio gli uomini, primi assoluti acquirenti di videogame, negli anni in cui salgono alle stelle gli orrori della chirurgia estetica, le palestre esplodono di iscritti e la tecnologia la fa da padrone ovunque, dai primi telefoni cellulari, al boom dei nuovi tessuti rubati dall’utility wear e lanciati sulle passerelle.

Lara diventa un mito, le edizioni di Tomb Raider si moltiplicano anno dopo anno, accompagnando una delle ossessioni degli anni 90, la bellezza plastica, impossibile in natura, osannata in questo caso da una creatura surreale, armata e che tiene gli uomini attaccati ad una consolle per ore e ore. Fa sorridere pensare ad una donna nata da un disegno, programmata ad hoc, commercializzata per il suo effetto erotico – estetico sul pubblico, mai esistita nella realtà, eletta sex symbol di un intero anno solare, battendo tra le tante l’altra icona dell’impossibile Pamela Anderson o l’inarrivabile Elle McPherson aka “The Body”.

L’enorme successo, le gigantesche fantasie sul personaggio, il profumo dei soldi, si traducono necessariamente in una pellicola cinematografica e quindi in una donna in carne ed ossa ad interpretare la famosissima archeologa: Angelina Jolie nel 2001 viene scelta come la donna perfetta per vestire i panni della protagonista di “Lara Croft: Tomb Raider”, sotto la direzione di Simon West. Angelina Jolie sembra essere nata per quel ruolo. A dieci anni dal suo esordio, quando poco più che sedicenne venne scelta come protagonista del video “Alta Marea” di Antonello Venditti, Angelina Jolie versione archeologa , toglie il fiato. Un corpo statuario pronto ad emulare le peripezie dell’eroina, generando un’apoteosi di bellezza impossibile: una sex symbol digitale, interpretata da una sex symbol reale.

E’ l’inizio del nuovo millennio. Il mondo non è finito.
Lara Croft è boom di incassi